Troppi dividendi e poco credito alle imprese, dice il ministro. Ma le condanne o gli appelli morali non servono se non si interviene su riforme e incentivi. Su questo il governo ha fatto poco
Il governo ha fatto la sua parte, le banche facciano la loro. La politica ha aggiustato i conti pubblici, i banchieri facciano credito alle imprese. È questo, in sintesi, il messaggio lanciato da Giancarlo Giorgetti all’assemblea dell’Associazione bancaria italiana (Abi). Il ministro dell’Economia ha snocciolato i risultati positivi dell’economia italiana, soprattutto dal lato della finanza pubblica: riduzione del deficit e dello spread e conseguente miglioramento del rating. “Le banche hanno beneficiato maggiormente del miglioramento della finanza pubblica nazionale”, sottolinea il ministro, dato che la riduzione dello spread “si traduce in una rivalutazione degli attivi delle banche” e il “miglioramento del rating sovrano si è traslato in upgrade di quello di molti istituti bancari”.
Giorgetti ha poi ricordato come gli “eccezionali rendimenti riconosciuti agli azionisti” sono stati possibili anche “grazie alle garanzie pubbliche prestate in occasione del Covid”. A fronte di questo sforzo pubblico, però, le banche fanno poco per le imprese. Pur riconoscendo che negli ultimi 15 anni gli istituti italiani si sono risanati e ripatrimonializzati, il ministro segnala che nello stesso periodo i prestiti alle imprese si sono ridotti di un terzo: la classica funzione di intermediazione creditizia ha ceduto il passo alla “gestione patrimoniale”. Giorgetti parla del rischio di “rinunciare alla creazione di ricchezza per limitarsi a gestire quella esistente”.
Il ministro dell’Economia pone certamente all’attenzione degli elementi di verità, ma all’interno di una visione parziale. È come se Giorgetti si limitasse a una condanna o a un monito morale del tipo “non pensate solo ai dividendi, ma a favorire lo sviluppo delle imprese italiane”, ma senza affrontare le cause di questa situazione. Qual è la struttura di incentivi che produce un esito subottimale come questo?
Quando il ministro elogia “l’inversione di rotta rispetto a 10 anni fa” per il miglioramento degli indicatori prudenziali che sono “migliori della media europea”, non può non riconoscere che questo percorso è – in una certa misura – l’altra faccia della medaglia della riduzione del credito alle imprese. Le nuove regole prudenziali introdotte dopo le grandi crisi del 2008 e del 2011, proprio con l’obiettivo di rendere le banche più solide e resilienti, hanno spinto verso una riduzione dei rischi e di conseguenza del credito.
Se i crediti deteriorati sono passati in una decina d’anni da circa 140 a 30 miliardi, con un’incidenza sui prestiti totali passata dal 6% all’1,5%, non è stato per caso. La riduzione dell’esposizione ai rischi delle banche, con i gravosi requisiti richiesti dagli accordi di Basilea, ha in una certa misura prodotto le garanzie pubbliche introdotte con il Covid, e che perdurano anche anni dopo la fine dell’emergenza: lo stato ha ridotto il rischio di salvare le banche ex post con un bailout, ma ha assunto dei rischi ex ante garantendo il credito alle imprese.
È su questo che dovrebbe riflettere il ministro: devono restare le garanzie come misura strutturale? Deve lo stato intervenire per assicurare il rischio d’impresa? Oppure, come dice il ministro, queste misure straordinarie devono rientrare ma accettando la possibilità di un’ulteriore contrazione del credito?
L’altro tema riguarda la situazione dell’economia che viene, solo per stare ai tempi più recenti, da quasi tre anni di calo della produzione industriale. Bisogna quindi guardare anche alla domanda di credito. E le indagini della Banca d’Italia indicano che nel 2024 la riduzione del credito alle imprese è dovuta principalmente “alla debolezza della domanda”. È certamente vero che la contrazione del credito è più forte per le piccole imprese, perché ritenute più a rischio, ma questo è un altro dato della realtà che non può essere modificato dicendo alle banche “siate più generose e temerarie”.
Qui si uniscono due problemi strutturali dell’economia italiana: il nanismo delle imprese e il bancocentrismo del sistema finanziario. Da un lato la dimensione ridotta delle imprese rende difficile l’accesso al credito bancario, dall’altro un mercato dei capitali basato quasi esclusivamente sulle banche non consente forme alternative di finanziamento per le imprese. Per giunta, il governo ha abolito un importante strumento come l’Ace, che era proprio un incentivo per le imprese a finanziarsi con capitale proprio anziché con debito.
Dall’altro lato, quello dello sviluppo del mercato dei capitali, non ci sono passi in avanti. Anzi, le mosse del governo con l’uso del Golden power e il dirigismo sul risiko bancario – in parallelo con l’atteggiamento simile dei governi di Germania e Spagna – non fa altro che impedire la nascita in Europa di un mercato unico dei capitali e di un’industria in grado di competere con quella degli Stati Uniti, che non a caso attraggono il risparmio e gli investimenti dall’Europa. È la prospettiva che ha indicato, anche nell’intervento all’Abi, il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta. Ma le scelte del governo Meloni, dal veto sul Mes al Golden power su operazioni di mercato, vanno nella direzione opposta.
Il ministro Giorgetti ha fatto bene, in passato, a respingere richieste inaccettabili e irresponsabili dell’Abi, come quella di prorogare il Superbonus ed estendere la cessione del credito d’imposta: una sacca di rendita parassitaria su cui le banche si sono fiondate a spese della collettività. Ma è appunto sugli incentivi e sulle riforme che il governo deve agire per creare le opportunità di investimento e attrarre capitali, e attraverso condanne morali o appelli ai buoni sentimenti.
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