Industria, istituzioni e il caso Max Mara. Parla Sacconi


A partire dal caso Max Mara, Maurizio Sacconi riflette sul ruolo delle imprese e su come le istituzioni, specie quelle locali, dovrebbero sostenere – e non ostacolare – gli investimenti industriali

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Dal rapporto tra sindacati e imprese alla sfida della transizione digitale e sostenibile, passando per il valore della reputazione industriale e il rischio di radicalizzazione nel conflitto sociale: Maurizio Sacconi, presidente dell’associazione Amici di Marco Biagi e già Ministro del lavoro e delle politiche sociali, interviene sul caso Max Mara e lancia un appello alla responsabilità condivisa, sottolineando come lo sviluppo passi da un’alleanza costruttiva tra mondo produttivo, lavoratori e comunità locali.

Presidente, in un contesto di crescente incertezza economica e di competitività internazionale, lei ha spesso sottolineato il valore delle imprese radicate nel territorio. Quanto conta oggi, nell’Italia alle prese con la transizione sostenibile e digitale, rafforzare i legami tra il tessuto produttivo e le comunità locali?

Le nostre imprese, anche quando multi-localizzate e orientate al mercato globale, hanno bisogno di radici profonde nel territorio di origine e di un contesto favorevole alla crescita delle loro funzioni direzionali.

In questo senso, quali dovrebbero essere, secondo lei, le condizioni sistemiche e culturali per favorire gli investimenti e la crescita nel nostro Paese?

Preliminare è un clima favorevole alla cultura d’impresa, senza pregiudizi ostili. Fattori di crescita sono regole semplici e certe, una capacità di formazione integrale delle persone affinché utilizzino creativamente e criticamente le nuove tecnologie, un costo dell’energia compatibile con le esigenze competitive, infrastrutture adeguate.

Qual è, a suo avviso, il ruolo che le istituzioni – centrali e locali – dovrebbero svolgere nel sostenere le imprese che investono e generano valore in Italia, specie in quei settori, come la moda, che rappresentano l’eccellenza italiana nel mondo?

La logistica distributiva è certamente un bisogno primario che le imprese stesse possono realizzare se vengono messi a disposizione spazi prossimi alle grandi infrastrutture di trasporto. Ma poi concorrono anche corrette relazioni di lavoro che possano garantire il ritorno di questi investimenti.

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Come giudica oggi il rapporto tra sindacato e industria in Italia? Ritiene che esista ancora una sorta di patto sociale implicito che vede le parti condividere la responsabilità dello sviluppo economico del Paese, o siamo entrati in una fase di contrapposizione permanente?

La conflittualità deve essere patologica, non fisiologica. E comunque deve essere sobria e concretamente rivolta a specifici obiettivi di qualità del lavoro. Senza aggredire la credibilità dei prodotti di consumo e dei loro brand. Oggi la radicalizzazione politica può alimentare quella sociale ma vedo nei lavoratori gli anticorpi per fermare le derive ideologiche.

Sul recente caso Max Mara, che analisi possiamo trarre dalla decisione dell’azienda di ritirarsi dall’investimento programmato a Reggio Emilia per il Polo della Moda? Le sembra che siano credibili le accuse mosse dalla Cgil? Altre lavoratrici le hanno seccamente negate…

Un solo sindacato ha esasperato i toni partendo da una normale controversia sulle pause di lavoro. Lo sciopero ha raccolto la adesione minoritaria di un terzo dei lavoratori mentre un altro terzo ha addirittura sottoscritto una lettera di difesa della attuale organizzazione del lavoro in azienda. L’amministrazione comunale è parsa invece schierarsi a priori con le contestazioni alimentando un clima divisivo.

Quando un’azienda di rilevanza internazionale come Max Mara subisce un danno reputazionale di questo tipo, il prezzo non lo paga solo l’impresa. Quali sono, secondo lei, i rischi reali che simili dinamiche comportano per i territori, in termini di perdita di investimenti e di disimpegno industriale?

Un patrimonio industriale è di tutti. Non se ne colpisce la reputazione per una ordinaria controversia su tempi e metodi di produzione. Non siamo in un territorio sregolato come quelli di molte filiere lunghe. Anzi, a Reggio Emilia non manca certo il controllo sociale. Occorre quindi una proporzione tra contenuti e forme della dialettica sindacale. Partendo in primo luogo dal dialogo tra i lavoratori. Gli enti locali possono al più svolgere un ruolo di mediazione e di composizione degli interessi se vogliono attrarre e non spaventare gli investitori.



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