I fondi pubblici in Sicilia restano uno strumento di consenso più che di governo


Adesso nel centrodestra siciliano c’è paura. Lo scandalo nato dalla rete di favori intorno al presidente dell’Assemblea regionale siciliana (Ars), Gaetano Galvagno, e cominciato come un’inezia, cresce di giorno in giorno, coinvolge anche assessori della Giunta di Renato Schifani, pezzi grossi di Fratelli d’Italia.

Perché non ci sono solo le solite intercettazioni un po’ volgari, i contributi a pioggia per sagre e feste del santo patrono, le telefonate con il tono confidenziale di chi sa che tanto nessuno ascolta. Stavolta, nelle carte della Procura di Palermo, c’è una rete di favori così fitta da sembrare un call center del potere, dove tutti parlano, scommettono, piazzano, promettono. E a tessere la tela, come una novella lady Macbeth in tailleur firmato, c’è lei: Sabrina De Capitani.

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Ex portavoce del presidente dell’Ars Gaetano Galvagno, De Capitani è al centro dell’inchiesta della Guardia di Finanza che sta terremotando la maggioranza di centrodestra in Sicilia. Nelle intercettazioni si vanta di aver creato carriere, inventato politici, organizzato eventi, indirizzato fondi pubblici. Di essere il «segreto del potere».

Tra gli ultimi nomi che spuntano fuori con più fragore c’è quello di Manlio Messina, ex assessore al Turismo e oggi deputato di Fratelli d’Italia. «Sono io che l’ho inventato, l’ho portato a Mediaset», raccontava De Capitani.

Dopo la caduta di Messina, travolto da quello che è passato alla storia come “lo scandalo di Cannes”, la delega passò a Francesco Paolo Scarpinato, inviso a De Capitani perché aveva cercato di tagliare i ponti con il vecchio sistema. Troppa autonomia. Così arrivò Elvira Amata, oggi indagata per corruzione, e il cerchio si richiuse.

Nel segreto degli uffici dell’Ars si discutevano i fondi del maxi emendamento di Ferragosto, quelli per le sagre e le feste patronali, distribuiti con un metodo da tombola. «Settecento alla maggioranza, quattrocento alla minoranza», spiegava un collaboratore. E «poi una posta per fare cose di grande respiro».

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Galvagno ascoltava, annuiva, gestiva. Si vantava persino: «Adesso gestiamo tutto noi, senza commissione bilancio, senza assessore all’Economia. Quando non saremo più noi, ci sarà meno per tutti. Questo è un bel messaggio di forza».

Intorno a lui, la corte. E nella corte, regnava lei. «Comanda tutto», si diceva nei corridoi. È De Capitani a gestire i segreti, i favori, le relazioni. Vive tra taxi, voli aerei, borse Hermès e cene esclusive. Chi la conosce, chi lavora nei palazzi, la teme. La detesta. Ma le obbedisce. E in effetti, in Sicilia, le rivoluzioni si fanno così: con un telefono, qualche cena giusta, e il potere di rattoppare le carte, come raccontano le segretarie.

E Schifani? Il presidente della Regione, in tutto questo, cerca di correre ai ripari. Dopo aver lasciato correre troppo, ora si ritrova con una Giunta sotto inchiesta, una maggioranza tremante e un clima di grande sospetto.

In attesa che la magistratura faccia chiarezza, resta il solito copione. Con attori sempre nuovi, ma con la stessa regia. Quella del potere opaco, delle relazioni parallele, del favore come moneta politica. E la Sicilia, ancora una volta, si riscopre una regione bellissima, dove tutto cambia perché nulla cambi. Dove anche le intercettazioni sono, a modo loro, letteratura.

Nel frattempo, dalle parti di Fratelli d’Italia, si cerca di raffreddare la febbre con le aspirine dell’autotutela. L’assessora Elvira Amata ha deciso di muoversi in anticipo, spedendo un dossier difensivo ai probiviri del partito, nella speranza di mettersi al riparo – almeno in casa propria – prima del possibile rinvio a giudizio. Stessa scelta per Gaetano Galvagno, il presidente dell’Ars, che ha mandato il proprio faldone a Roma con l’aria di chi sa che il giudizio più severo, alla fine, potrebbe non arrivare da un’aula di tribunale ma da via della Scrofa.

Dalla dirigenza nazionale, però, nessuna parola. Nessuna pacca sulla spalla, nessun comunicato. Solo una glaciale linea dell’attesa, illustrata personalmente dal commissario regionale Luca Sbardella al presidente Renato Schifani. Un po’ come dire: non li difendiamo, ma nemmeno li molliamo. Ancora. Perché il punto vero è che nessuno ha voglia di esporsi con Galvagno o con Amata nel bel mezzo dell’estate e con le intercettazioni ancora inedite pronte a inzuppare le prime pagine.

E mentre le intercettazioni tengono banco e i dossier viaggiano sottobanco, Renato Schifani prova a blindare la manovra estiva. Con l’aria severa del preside che ha scoperto che qualcuno copia durante il compito in classe, riunisce capigruppo e segretari della maggioranza, consegna loro una bozza praticamente già impacchettata della prossima manovra da votare a luglio, e annuncia: «Niente mance».

Il mantra, lo stesso da mesi, stavolta suona quasi liturgico. Anche perché il testo della cosiddetta manovra ter – quella di luglio, quella delle notti afose e dei voti stanchi – vale ben più dei centocinquanta milioni iniziali. Supera i duecento, potrebbe toccare i trecento. Ma, giura il presidente, tutto è sotto controllo.

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Nella bozza ci sono misure contro il caro-voli, aiuti agli agricoltori per scavare laghetti, contributi per assumere persone svantaggiate, fondi per disabili, scuolabus, videosorveglianza, archeologia, strade. Tutto molto operativo, tutto molto pulito.

Quello che non c’è, invece, sono le solite marchette. Quelle chieste dai partiti, dalle sigle minori, dai fedelissimi. Tutto rinviato a futuri piani. E niente, soprattutto, per le «iniziative direttamente promosse» dagli assessorati: la categoria più ambita, quella con meno trasparenza e più margini di creatività contabile.

Nel frattempo, i deputati prendono appunti e aspettano agosto. Perché è lì, tra i ventagli accesi dell’Ars e le assenze strategiche, che potrebbe rispuntare qualche emendamento territoriale. E magari, nel silenzio della canicola, anche una mancia può passare inosservata.

P.S. C’è qualcosa di surreale – e perfino un po’ grottesco – in questa inchiesta che sta scuotendo la Sicilia politica. Non solo per il contenuto delle intercettazioni. Ma anche per la forma: una sfilata di omissis degna del gioco «Indovina Chi?», dove i personaggi sono tanti, ma le facce scomparse.

Per la prima volta, infatti, è entrata in vigore la riforma Nordio. Nei brogliacci, nelle ordinanze e nei verbali, le persone non indagate devono essere occultate: non si possono riportare elementi identificativi né nomi che consentano di ricostruire la loro identità. Ci sono soggetti oscurati. Ecco dunque tutto un fiore di UOMO 6, DONNA 2, UOMO 56. Un caos ordinato di sagome invisibili, dialoghi sospesi, ruoli lasciati all’intuizione. Una strategia di anonimato che non protegge davvero nessuno, ma che certo aumenta l’ambiguità. E confonde. A volte volutamente.

Chi legge le carte si trova così davanti a un mosaico in cui le tessere ci sono, ma manca la colla. Si intuisce chi agisce, ma non sempre si può dire. Si riconoscono le frasi, ma senza sapere a chi attribuirle.

I cronisti più pazienti tentano di ricostruire, incrociando date, eventi, soprannomi, accenti. Si risale al contesto, si fanno confronti con documenti già noti. Ma è un esercizio da filologi della corruzione, più che da giornalisti. E intanto nei palazzi della politica tutti si aggirano con il timore di essere uno degli omissis, uno di quelli il cui nome non è ancora venuto fuori, ma che prima o poi sbucherà. Perché, lo sanno tutti, l’inchiesta – quella vera – non è finita.

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