“Io faccio il tifo per dazi zero, ma nel caso poi andasse male dovremo quantificare i danni e valutare cosa si può fare. Di certo però non c’è ristoro che possa sostituirsi ad anni di investimenti fatti dalle imprese» sostiene Giacomo Ponti, da mercoledì scorso nuovo presidente di Federvini, oltre che della storica azienda novarese di famiglia che produce aceto, in un’intervista a La Stampa che riportiamo integralmente.
Presidente che ne pensa dell’ipotesi che gli Usa alla fine fissino i loro dazi al 10%?
Io peroro dazio zero. Perché le tariffe, oltre a portare nocumento a chi li subisce, danneggiano anche l’economia che dovrebbe trarne del beneficio. Soprattutto nel caso dei nostri prodotti, e in generale del Made in Italy, una volta esportati negli Usa la loro catena del valore si espande per più del 50% sul suolo degli americano a favore di importatori, distributori, catene di broker e distribuzione al dettaglio, come supermercati, enoteche e catene di ristorazione. Quindi un aumento artificioso dei prezzi non solo genera inflazione ma porta nocumento anche a loro. Ma soprattutto il danno maggiore ce l’ha poi il consumatore finale che dovrebbe poter scegliere liberamente cosa comprare senza dover subire imposizioni tariffarie che finiscono per modificare artificiosamente il mercato.
Secondo il governo il 10% sarebbe «gestibile»…
Certamente è più gestibile del 20%, soglia che produrrebbe danni seri. E urgente uscire da questa fase di incertezza, le nostre aziende hanno bisogno di un orizzonte temporale di medio periodo stabile per fare la programmazione, ottimizzare produzione, acquisti e logistica.
Il settore dei vini è particolarmente esposto verso gli Usa…
Come tutto il made in Italy, perché soprattutto il food and beverage beneficia di 150-200 anni di emigrazione italiana, di un ponte nei confronti della cultura americana molto ampio che va oltre gli italoamericani che vivono lì e comprende anche tutti gli chef e i ristoranti italiani hanno diffuso la nostra cultura.
Le nostre imprese dovrebbero cercarsi altri mercati?
Lo si dice spesso. Ma non è che non ci abbiano pensato, però trovare un Paese con più 300 milioni di abitanti, con una capacità di spesa così grande e che ama così tanto i nostri prodotti è difficile. Cina, India e Giappone, o anche il Medio Oriente, sono mercati potenziali, su cui sicuramente le aziende italiane stanno lavorando. Ma è un percorso molto lungo e pensare nell’immediato a una sostituzione è pura fantasia.
Il governo promette sostegni. Voi cosa chiedete?
La prima cosa la chiediamo alla diplomazia è di puntare al dazio zero, così poi ce la possiamo giocare con la competizione dove, senza volerci incensare, siamo particolarmente bravi.
Ma se andasse male?
Dovremo stimare l’eventuale danno, cosa che però oggi è difficilissimo immaginare. Vedremo cosa succede, poi siederemo al tavolo e vedremo cosa può fare per noi il governo. E chiaro però che qualsiasi tipo di ristoro non può comunque sostituirsi ad anni di investimenti fatti dalle imprese per crescere in quel mercato ed alla cultura che hanno diffuso, tenendo poi presente che quando perdi quote di mercato riguadagnarle poi è molto faticoso.
Cosa teme?
Il mio più grande timore è che aumentando i prezzi al consumo, cosa che bisogna assolutamente cercare di evitare, si apre la porta all’italian sounding, perché il differenziale di prezzo tra prodotto originale ed il prodotto imitato aumenta e quindi c’è il rischio concreto che la domanda di nostri prodotti diminuisca.
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