«Era necessario lanciare un segnale di allarme»


«Le nostre dimissioni sono state un atto necessario perché suonasse un segnale di allarme». Il ravennate Alberto Cassani è uno dei tre dissidenti che la scorsa settimana hanno deciso di abbandonare la commissione consultiva nazionale del ministero della Cultura per il Fondo nazionale dello spettacolo dal vivo. Si tratta dei finanziamenti erogati ogni anno per sostenere gli enti teatrali, la danza, il circo e la musica, i cui risultati stanno uscendo in questi giorni. Cassani, ex assessore alla cultura del Comune di Ravenna e coordinatore di Ravenna2019, era stato nominato nel 2022 su indicazione dell’Upi. Gli altri due dimissionari, Carmelo Grassi e Angelo Pastore, erano stati indicati rispettivamente dall’Anci e dalla Conferenza delle Regioni.

Le dimissioni hanno fatto scalpore: nella lettera indirizzata al ministro Alessandro Giuli, i tre hanno denunciato «l’impossibilità di costruire, all’interno della commissione, un percorso condiviso ed equilibrato nella valutazione dei vari organismi teatrali richiedenti». In particolare, hanno scritto, «la scelta della maggioranza della commissione di voler declassare la Fondazione teatro nazionale della Toscana sulla base di motivazioni pretestuose, ci trova assolutamente contrari e rende impossibile la prosecuzione del lavoro». Il casus belli riguarda la stagione diretta dal drammaturgo e scrittore Stefano Massini, noto per le sue posizioni contro il governo Meloni espresse in tv. Ma gli scontri tra i commissari avrebbero riguardato molti altri enti teatrali, in particolare alcune realtà più piccole e di ricerca. Tra queste ci sarebbero anche diverse realtà ravennati ed emiliano-romagnole.

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Cassani, partiamo dall’inizio. Cosa è accaduto?
«Il peccato originale è contenuto nel decreto del governo che ha cambiato le regole per il Fondo nazionale dello spettacolo dal vivo. I nuovi criteri hanno ridotto il sostegno all’innovazione artistica, penalizzando le realtà che si prendono il rischio culturale della sperimentazione. L’emblema di questa politica è rappresentato dai centri di produzione, dai quali è stata eliminata la categoria “innovazione”. Oggi questi centri sono classificati solo in base alla capienza delle sale che gestiscono; perciò – per fare un esempio – Ravenna Teatro si trova nella stessa voce del Diana Or.Is di Napoli. Il primo è una realtà di ricerca contemporanea, il secondo è un teatro a vocazione commerciale. Entrambi hanno piena legittimità di esistere, ma le loro proposte culturali sono completamente diverse e non ritengo giusto che vengano valutate secondo gli stessi criteri».

Quali sono?
«I nuovi punteggi premiano le realtà che hanno maggiori risorse economiche dal botteghino e dalle sponsorizzazioni. Rispetto al passato, è stata ridotta l’importanza del finanziamento pubblico di Comuni e Regioni. Di conseguenza, chi ha più successo commerciale e vende più biglietti ha anche un maggiore finanziamento ministeriale. È un paradosso: il teatro commerciale ha molto meno bisogno di soldi pubblici, in quanto si autosostiene. Al contrario, il teatro sperimentale si assume più rischio culturale e perciò dovrebbe essere più sostenuto dalle istituzioni».

I tre dimissionari sono stati indicati da Comuni, Province e Regioni; gli altri quattro sono di nomina ministeriale. Si trattava di due fazioni?
«Sicuramente c’erano orientamenti e sensibilità culturali differenti. Ma al di là di gusti e preferenze diverse, una delle più frequenti ragioni di scontro derivava dalla tendenza, presente nella maggioranza, a far prevalere sui giudizi qualitativi le valutazioni di natura quantitativa (rapporto entrate-uscite, numero di spettatori, costo medio per spettatore), che non competevano alla commissione. Bisogna infatti sapere che gli aspetti quantitativi sono già automaticamente considerati nella definizione del punteggio complessivo, mentre è di esclusiva competenza della commissione la valutazione degli aspetti relativi alla qualità artistica dei progetti. Oltre a questa diversa impostazione, era emersa sin dall’inizio la volontà della maggioranza di modi care gli assetti del teatro italiano attraverso bocciature e promozioni in base a valutazioni non sempre oggettive. Questa spinta rendeva difficile la via della mediazione e dei giudizi equilibrati e condivisi; una via che noi abbiamo sempre praticato e difeso, perché la ritenevamo l’unica compatibile col nostro ruolo istituzionale e con la necessità di rispettare la complessità del mondo teatrale italiano. Purtroppo, nonostante avessimo raggiunto un accordo su quasi tutti i progetti, compreso il Teatro della Toscana che doveva restare teatro nazionale (pur con un punteggio più basso), l’improvvisa decisione di declassarlo a colpi di maggioranza ha creato un vulnus che non poteva passare sotto silenzio».

C’è stato un diktat politico a causa dell’orientamento di Massini?
«Un cambio di opinione così repentino deve essere legato a qualcosa di anomalo. Avremmo potuto semplicemente votare contro, ma sarebbe stato un gesto ininfluente. Le dimissioni sono state un’azione necessaria per sollevare pubblicamente il caso di un declassamento deciso sulla base di motivazioni pretestuose. I quattro commissari si sono appigliati a una parte del progetto che, secondo loro, era scritta in maniera troppo narrativa e poco dettagliata; ma a nostro parere si trattava di una forzatura e la motivazione era insufficiente per giustificare il declassamento».

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Come ne uscirà il teatro emiliano-romagnolo?
«Le realtà teatrali della nostra regione hanno un valore riconosciuto a livello nazionale e internazionale che in passato la commissione ha sempre apprezzato. I punteggi in commissione erano già stati decisi e confido che non vengano modificati. Ma non v’è dubbio che anche le realtà ravennati e romagnole di eccellenza rientrino nel processo in atto di spostamento degli equilibri».

Cosa dobbiamo aspettarci nei prossimi giorni?
«La commissione ministeriale deve essere composta da sette membri, di cui tre in rappresentanza di Regioni ed enti locali. La commissione può procedere in questa fase anche con soli quattro membri, ma è evidente che la rappresentanza istituzionale risulterebbe monca. Nel caso ci fossero altri declassamenti o clamorose riduzioni di punteggio, si aprirebbe la strada dei ricorsi. Anche per questo il mio auspicio è che prevalga il buonsenso e che le nostre dimissioni inducano la maggioranza a una maggiore moderazione nella formulazione dei punteggi finali».



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